8 gennaio 2015

Amour, di Michael Haneke


Non credo si possa amare più di quanto Georges e Anne si amino. Non credo si possa soffrire più di quanto Anne e Georges soffrano. Non credo si possa assistere a qualcosa di più bello, e nemmeno di più atroce. 
Amour sembra una sorta di compendio della vita, che riassume e racchiude in sé sia tutto il suo splendore, che tutto l'orrore di cui è capace. 
Sì, perché non credo si possa essere più felici e belli di questa coppia ultrasettantenne.
Ma, allo stesso tempo, Amour è anche ciò che di più orribile ci sia al mondo, ciò che più si allontana dal concetto di bellezza. Umiliazione, degrado, dolore, ingiustizia, supplizio. Un'agonia lenta ed efferata; una barbarie, oltre ogni umana e disumana immaginazione. 


Scegliere da che parte stare (basta o non basta? Ne vale la pena o no?) è difficile. Quasi impossibile. Magari, più in là con gli anni.
Ora, scelgo soltanto di dire che mai avevo visto convivere tanto amore e tanta morte, tanta grazia e tale atrocità sotto lo stesso tetto. 


Al termine del film, non sai se è l'angoscia, l'ammirazione, la collera o l'incanto a prendere il sopravvento. Forse nessuna. Vivono e convivo tutte dentro te stesso, dentro un film che sa così tanto di vita, nonostante la morte. Nonostante la morte, perché è inutile negare che se anche Anne e Georges sono comuni mortali, allora bisogna proprio arrendersi.
Eppure, col tempo Amour riesce a rinascere e ad amarti. In mezzo a tutta quella sofferenza e di fronte all'ennesima resa al brutale destino, non so come faccia. Ma è così. Amour ti sorride, mentre Anne balbetta canzonette francesi; ti accarezza, quando dice: "Je ne veux plus!" e ti stringe forte, fortissimo, fino a farti male, quando Georges spinge altrettanto forte quel cuscino. Proprio come la vita. 






25 febbraio 2011

La merlettaia (C.Goretta)

È difficile e quasi contraddittorio descrivere sia il personaggio di Pomme, che il film di Goretta, perché sarebbe come parlare del silenzio, perché è come se il suo mutismo, la sua immobilità, l’incomunicabilità di cui è intrisa la pellicola potessero essere espressi fedelmente solo attraverso il silenzio stesso. Ora, mentre cerco di trovare parole appropriate per delinearla, lo contraddico, quel silenzio, perché mi avvalgo di uno strumento che ha in sé movimento, azione, fragore: la scrittura. Scrivendo, inoltre, cerco di rendervi partecipi di ciò che sento, provo, avverto e quindi smuovo qualcosa dall’interno esternandolo, comunicandolo e condividendolo con gli altri. Facendo ciò, contraddico nuovamente la protagonista e il suo film, perché è proprio tutto ciò che lei non sa fare, è proprio ciò che Goretta ha cercato di raccontare: e cioè la complessità di comunicare, di mostrarsi, palesarsi, di rendere comprensibili agli altri i nostri pensieri. Pomme non sa fare nessuna di queste cose: sta zitta. Ma la sua non è mancanza di coraggio, di viltà o perché non le avverte davvero quelle sensazioni, è un’incapacità fisiologica, innata, che può solo subire. Né io né le orde di scrittori di cinema, letteratura, e chi più ne ha più ne metta, ci teniamo di più a quegli ardori, se li trascriviamo, li comunichiamo a voce, se li confermiamo con i fatti: Pomme ha dentro, molto probabilmente, più di qualsiasi poeta, benefattore, mecenate, filantropo. È solo che lei non sa manifestarlo, non sa farlo uscire fuori, spiegarlo, metterlo in movimento, tradurlo in parole o azioni. È un vortice di emozioni costretto dalla sua incapacità di “conversione” ad attendere.

Tutti cerchiamo di trasformare quel groviglio di cose che ci portiamo internamente in parole scritte, orali o gesti. Tutti cerchiamo, una volta trasformato, di condividerlo e farlo conoscere agli altri. È un istinto, un bisogno primario, un’esigenza. Isolarlo lì, segregato in noi stessi, sarebbe come autorinchiudersi in gabbia. Ma non è facile, non è semplice descriversi, raccontarsi, tramutare in un idioma chiaro ed accessibile agli altri ciò che ci tormenta o allieta. Pomme ne sente il bisogno come e quanto tutti, ma non riesce a trasformare, non riesce a convertire, può solo aspettare. Ed allora il suo silenzio è ciò che di più spaventoso possa esistere, perché quella quiete, in realtà, nasconde un mondo dentro: una moltitudine di paure, gioie, afflizioni, passioni, amori soffocati, asfissiati e relegati dalla difficoltà umana di esprimersi, in una gelida prigione insonorizzata.

“La merlettaia” racconta di tutte quelle parole rimaste bloccate in gola a causa della complessità di decodificare le proprie emozioni; dell’uccello di Maupassant che, sebbene fosse desideroso di cantare, «non rilasciò il suo canto; stette in silenzio e non fuggì»; dell’uomo che, nonostante cerchi di decrittare quell’intrico di percezioni che si porta dentro, continua a sentirsi perennemente incompreso, frainteso, limitato, mai pienamente capito; di esseri umani e non, che sentono di non essere liberi, di non potersi esprimere appieno. Pomme è tutto questo, l’uomo, spesso, è tutto questo. In particolare, ciò che ci spaventa di più è quello stacco, quel divario fra ciò che avvertiamo dentro e ciò che invece riusciamo ad esternare e rendere comprensibile agli altri. Uno stacco che, quando sentiamo che è così abissale, ci consegna alla triste realtà dell’impossibilità di descrivere pienamente noi stessi. Ed è proprio quel baratro il responsabile del silenzio di Pomme e, di conseguenza, dell’uomo. È quella distanza incolmabile a farci tacere. È di fronte a quel solco, dinanzi a quest’abisso che separa il pensiero dalla parola, al cospetto di questa incomunicabilità, che l’uomo si arrende. È proprio qui che crolla il linguaggio, che fallisce la parola: dinanzi a Pomme, dinanzi al suo inesplicabile splendore dell’animo, che non trova via di sbocco nella realtà, né vocaboli o azioni alla sua altezza.

Ora, mentre Pomme sta pensando alla Grecia, a quel viaggio che tanto avrebbe voluto fare, ma che purtroppo mai farà; mentre pensa a quanto sarebbe stata felice, se François l’avesse capita; mentre immagina che sarebbe meraviglioso, se tutto fosse come nei suoi sogni; non è forse il silenzio l’unico a poter descrivere pienamente tutto? Un po’ come la realtà fa con i sogni, il linguaggio ci tradisce, ci travisa, ci sminuisce, crea una frattura insanabile fra il nostro mondo interiore e quello vero, fra quello che abbiamo nell’animo e quello che riusciamo a raccontare o far comprendere agli altri. Pomme alza lo sguardo lentamente, fissa la camera e pensa che quella comprensione, quel mondo interiore, così come la Grecia, possono solo essere sognati, in silenzio.

«Sarebbe passato vicino a lei, proprio accanto a lei, senza vederla. Perché lei faceva parte di quelle anime che non mostrano alcun segno, ma che occorre pazientemente interrogare, su cui bisogna saper posare lo sguardo. In altri tempi, un pittore ne avrebbe ricavato il soggetto per un quadro di genere. Sarebbe stata una cucitrice, una portatrice d'acqua o una ricamatrice».